Trilogia del lago
Sam
Un pallido sole si fa largo tra le nubi mentre cammino lungo i sentieri che costeggiano il laghetto dove vengo a immaginare il mare.
Ogni tanto mi sdraio sull’erba, tra i cespugli che mi nascondono alla vista del custode del cantiere. Il cane se ne va felice e fiero tra i viottoli, poi scende sulla rima dell’acqua e grugnisce un monito rabbioso alla sua immagine riflessa.
Il lago, la cava, è una piccola oasi nascosta in questo orrifico suburbio di reietti dove gente oppressa, stanca, frustrata, umiliata, si ringhia contro con maschera di bestia.
Questo quartiere è un capolavoro, un’allucinazione, un’enterocolite dell’urbanistica, una fogna che esala effluvi tossici e puzzolenti.
E questo maleodore, i fumi di questa marcescenza ammalavano anche noi, che ce ne stavamo sul balcone a tendere agguati alla magica poesia della miseria.
E una notte i fumi si sono fatti vortice e uragano tra i crepacci delle vie, hanno divelto cancelli e portoni, messo a soqquadro giardini e cortili, scrostato gli intonaci delle case, paralizzato animali, bloccato ragionieri e casalinghe con gli occhi spalancati a fissare i piatti nei lavabi, fermato il mondo nelle tv.
E in quel disastro le nostre anime leggere e vaghe non hanno avuto scampo e ci siamo fatti male, e ci siamo ritrovati lì, per terra, semplicemente distrutti.
Ma poi in qualche maniera ci si rimette in sesto. Il cane ci ha dato una grande mano. Te ne stai a guardare la sua vita semplice per ore e questo ti rappacifica, i suoi occhi buoni sono uno specchio dove ti vedi migliore e il suo non sapersi decidere su chi seguire quando ci separiamo diventa un ponte fra le nostre terre inospitali, aride, inaccessibili. E ti ci aggrappi a questa piccola cosa che ti cura, e col tempo la salita si fa meno sfibrante e la discesa meno vertiginosa.
Ci vengo quasi ogni giorno alla cava, col cane. Ogni tanto anche con lei.
E’ quasi sempre tranquillo. Ogni tanto scavano il fondo e accumulano terra, detriti e macerie tutt’attorno. Per un po’ fa schifo, poi cresce l’erba, ci svolazzano le farfalle, ritorna bello, per noi è bello, anche se lo so che non è un lago vero, che sotto sotto è un vero cesso.
Ma qui la mente spazia.
Io lo so che le cose sono così, che questa non è che una rappresentazione dove il sole fa la parte di sé stesso ma comunque recita, il lago è l’attore principale ma è già stato protestato, e quelle quinte di canne e vecchi pioppi saranno presto smantellate. E so che in questa messinscena i serpentoni di cemento alle mie spalle sono un obolo di orrore che mi ricorda che lo spettacolo non è gratis.
Allora mi cerco un posto, uno slargo d’erba corta dove stendermi a dimenticare. E così, se nell’oblio cercato in quell’ozio sotto il sole si insinua un’ombra di ricordo, un nome, una leggera sensazione di carezza, un profumo, io guardo attraverso le palpebre serrate come quando ero bambino e mi perdo in quel mistero del vedere e non vedere con gli occhi sempre chiusi contro il sole.
Tutto viola, tutto blu, tutto nero, giallo, rosso.
321
Ogni sera, alle dieci in punto spengono la luna e io mi giro da una parte all’altra per cercare le stelle che tardano ad apparirmi.
E’ nero qui, buio nero. L’ansia mi guarda con occhi di gufo e so che presto mi salterà alla gola e comincerà a mancarmi l’aria e le ginocchia mi tremeranno e cadrò a precipizio sbattendo sulle rocce del dirupo, cozzando tra i macigni delle rapide.
Questo buio che mi trascina via è una voragine senza fondo che solo la luce può colmare.
Io ti prego Dio, portami le stelle, io ti prego.
Abbandonata con la faccia sulle sbarre della finestra della mia segreta per pazzi, vedo un fuoco in un punto dove la città ha un’introflessione d’ameba.
C’è un uomo che brucia qualcosa e le ombre lunghe del primo sole tremolano sull’acqua del piccolo lago, tranquillo pascolo della mia immaginazione di libertà.
Sono spossata, stremata da un’altra notte passata nel labirinto dei miei incubi. Arriva Betta che approfitta dei pochi minuti di sangue pulito del mattino per darmi il tormento. La sento trascinarsi dietro la porta, entra come niente, io inerme e disarmata contro una violenza che basterebbe una chiave a scongiurare. Tento di parlare con Betta, i discorsi si aggrovigliano, i pensieri rifiutano ogni successione logica, le parole non stanno attaccate a niente e sento andare le cose in pezzi e mi par d’essere come il cavallo divelto dalla furia del temporale in una giostra sinistrata, schiantato per terra, riverso sul fianco, che scivola tra Dumbo e il razzo spaziale e se ne sta lì, annegato nella pozzanghera cogli occhi spalancati, fissi, pieni d’acqua.
La mattina Betta è pazza, stanca, distrutta come me. Più tardi se ne andrà in giro inebetita, assente. A sera la trovi sempre seduta sulla sedia accanto al telefono.
Ci guardiamo negli occhi vuoti io e Betta, e usciamo nel corridoio vuoto per la nostra ridicola marcia strisciante, striscia un striscia due, sinist sinist, e saltelliamo due saltelli in direzione della sala tv.
E a notte mi ritrovo dentro i quadri e i disegni che ho appeso alle pareti e vado in giro salendo per una scala che sale sempre e non sale mai, e prendo poi a fissare lucertole giustapposte e immobili per l’assoluta mancanza di spazio, imprigionate nel loro incastro perfetto. E prendo a scavare con la punta della penna attorno alla testa di quella che mi fissa supplicando e scavo e scavo e quella freme ché la gogna già s’allenta, e scavo e scavo e scavo e la penna, il mio piccone, si consuma ma resiste fino a quando è libertà; e così prendo a fare per le altre ma ho bucato il foglio e c’è un risucchio, un mulinello, MAELSTROM! e quelle ora si agitano impazzite arcuando il corpo, incerte fra l’oblio e la schiavitù. C’è chi si offre docile a sparire e chi si amputa la coda e si finge morta, come se di questo macabro lascito potesse mai saziarsi la fame di un gorgo sognato in un sogno di pazza.
Poi mi risveglio con un mucchietto di calcina tra le mani macchiate d’inchiostro, con quelle piccole code che ancora si agitano sul pavimento bianco.
Colazione a letto. Mi chiedo quale benigno fato oggi mi alieni dallo spettrale gregge di penitenti in purgatoriale marcia verso mensa, non ho la risposta ma ringrazio il cielo.
Sul comodino c’è una rosa, è una bellissima rosa, rossa, vellutata, a bagno in una bottiglietta d’acqua. Non so come ci sia finita, quando. Devo essermi persa qualcosa, comunque ci vorrebbe proprio un bel vasetto. Farò una preghiera, sì una preghiera. Che il domani mi porti un bel vasetto.
Dalla finestra filtra uno splendido sole e si potrebbe scendere a prendere un po’ d’aria. Il cortile è una striscia di cemento tesa tra il parcheggio e un piccolo campetto con un albero gigante a ridosso del recinto, dove un giorno o l’altro m’arrampicherò per librarmi in volo d’angelo.
Come sarà quel giorno è una cosa che mi piace immaginare, ma non oggi.
Oggi preferisco tornare in camera e mettermi a guardare giù verso il laghetto dove oggi già si scava e fare il gioco del m’immagino che tu, m’immagino che io, con quell’uomo che vive dentro la baracca e che mi metto spesso ad osservare dalla mia finestra, che un poco legge e un po’ si ferma a contemplare l’acqua e che quando un operaio gli s’avvicina nasconde quel che scrive sotto un sasso.
Immagino che tu, immagino che io, immagino che gli uomini del mondo, che la vita è un’altra vita, che crescono fiori nel mio campo, quando voglio, di tutti i colori che voglio e volano uccelli e mosche si aggirano tra le verdure, i cristalli, gli schioppi e l’uva di quelle nature morte, mia pinacoteca, mio giardino, mia segreta.
Danzerò la mia danza esotica ora che qui tutto torna tranquillo, adesso che il silenzio può avvolgermi, ancora, di nuovo, sempre. Un raggio di luna mi tende la mano e mi attira a sé, io mi abbandono alla sua persuasione, vado alla finestra.
E’ tutto rarefatto, morbido, il cuore mi scoppia. Questa luna, la frescura della notte, il lago dove un giorno guarderò specchiarsi Orione, luce e ombra, vita e morte, delirio d’amore e di infinita riconoscenza. Il soffitto è ancora sulla mia testa, reale, regolare. Nessun equilibrio è stato sovvertito oggi, nessun equilibrio non è stato sovvertito mai.
Questa notte non entrerò nel labirinto.
Sarà una veglia d’amore.
Mare e luna
guardate la mia danza esotica
le mie mani lunghe carezzano le onde degli oceani
Il mio soffio caldo
sospinge le barche dei naviganti di ventura
Cavaliere dalla triste figura
riscattami
e riempimi d’amore e di poemi
Il custode del cantiere
E vedo la stamberga di latta che trema e sbatte e si piega sotto l’urlo del vento. Il cielo gonfia i muscoli e si infervora su di me, trascina il mio tugurio, increspa le onde del lago, abbatte il braccio della draga, gioca coi suoi secchi, restituisce ai pesci la loro terra, si condensa in nubi scure e gonfie e io non potrò salvare Ecuba dalle grinfie di Ulisse. Priamo è morto ma mi ripara dalla pioggia. Sotto le dita sento le pagine sciogliersi e fondersi in un tutto che è un nulla. E mentre corro dietro a quella stregua di aquiloni luccicanti che erano il mio tetto, sento sulle dita la danza dei caratteri disciolti che scrivono una pagina della nuova Apocalisse, un’altra di quelle pagine che nessuno legge mai.
E passata la tempesta arriverà la squadra di Belloni a riparare la draga, e tornerà a scavare il lago e la terra sarà mattone e casa, l’operaio avrà polenta e riso, avrà la sua signora, avrà minestra, e i suoi figlioli avranno un dubbio e poi un presagio e scaveranno e supporranno il buio della morte e scaveranno con sempre più vigore, accanimento.
Scavare, scavare, scavare un buco fondo dove cacciare dentro la paura.
Vorrei avere pace, forza per bighellonare in riva al lago, per tirare sassi dentro l’acqua, pace per lasciarmi cuocere dal sole, forza per passare tempo a essere lucertola, sasso, ramo di pioppo spezzato dal vento, pace per chiudere gli occhi e forza per dimenticare, per dimenticarmi.
Ma io che fui Re e Padrone del tempio, Cavallo e Cavaliere, Bernardino Lamis, adesso mi sento assediato dai lampi subdoli della mia immagine rifratta dai cento prismi della pioggia, coi mille occhi suoi che di ritorno fissano i miei occhi e riesco solo a correre sotto la pioggia per raccattare le lamiere che questo vento infame si trascina via.
La gioventù è un cavallo che mi siede davanti, sul tram. Sbadiglia e nitrisce. Nitrisce e sbadiglia.
Si aprono le porte. Cigolando si aprono e incorniciano facce saltate fuori dal buio. Si chiudono le porte. Stridendo si chiudono e tosse s’aggiunge a tosse e fiato corto.
Signorina, autista, signore, cosa ci attende?
Un peccato, una pacca sulla testa, un domani che striscia col suo passo pietoso, un altro tradimento, la mano di un bambino, lenzuola pulite e profumate?
Cosa abbiamo davanti?
Ho davanti impronte di mani e un rimedio infallibile contro la calvizie, piedi nervosi, piedi che non ne possono più. Scarpe stanche.
Quanto resisterò ancora, quanto?
Riuscirò a innamorarmi della vita un’altra volta? Quanto durerà la parte del custode, sarà la mia ultima recita? Il mio occhio è troppo lento? E quelle scintille colorate, possibile che non mi facciano battere più il cuore?
Corri, corri veloce sui nastri di ferro della città, attraversa la notte, piccola carrozza, finché ho una musica in testa, e nei lombi.
Prendo posto nel palco deserto che già è tutto buio e silenzio, nel teatro.
L’orchestra brilla di una luce d’oro e potrei essere qui per l’opera se non avessi un’irresistibile predisposizione al calvario, alla commiserazione di me stesso, all’autolesionismo.
La recita comincia ma lo spettacolo per me è un altro.
Il mio occhio sorvola il palco, poi si tuffa nel golfo mistico e cerca i personaggi, individua il carnefice.
Il taglio degli occhi, la curva del braccio sottile, il disegno della caviglia che grattavo col ferro da calza, il panneggio del bel vestito, le spalle nude.
Passerà, come il vento, come questo Wagner, come il tuo bel suono, passeranno le mie facce buffe nei ricordi.
La quarantasette mi scarica davanti al Cantagalli.
C’è sempre un’energia strana qui, qualcosa che aleggia, qualcosa che i muri non riescono a contenere. E tira sempre vento qui davanti, forse la brezza tagliente della pazzia. Pazzia dei pazzi, pazzia dei dimenticati, pazzia degli sconfitti, degli abbandonati.
Questo edificio mi calamita come un destino.
Periferia della città, immondizie veloci, di passaggio.
Vanessa e le sue grandi cosce. Dentro il cuore ho un urlo di ribrezzo, di pietà, e un sussurro d’amore.
Lei si stringe nelle spalle per raccogliere quel corpo trabordante fuori dal freddo, si chiude nel giubbotto luccicante e sui tacchi fa tic tac.
Due parole, un sorriso, e poi, a braccetto imbocchiamo il sentiero fra gli orti.
Davanti al cancello del recinto del cantiere tiro fuori il mazzo di chiavi e comincio ad armeggiare attorno a quel lucchetto arrugginito dalla nebbia.
La baracca è un po’ distante e Vanessa potrebbe andare giù ad ogni passo sul terreno dissestato.
Il ghiaccio sottile cede e scricchiola sotto i nostri passi.
Mi si stringe contro, dice che fa un freddo di merda, ma io sento le parole che non sa dire e le carezzo la testa.
Dentro, il tepore della stufa comincia a dissipare la morsa del freddo.
Cammino stancamente tra le ruspe, le mani in tasca, la brezza del mattino che punge la faccia.
Una volta pensavo che un uomo fosse il suo progetto, la proiezione di sé, l’idea di estensione che c’è nel suo cuore, nella sua mente, nelle sue ossa quando cammina, quando salta, quando ama. Credo di pensarlo ancora, ma adesso sento l’inizio e la fine dei miei passi. Un piede dietro l’altro, da qua a là. Ossa, cartilagini, tendini e muscoli che s’allungano e s’accorciano per portare la carcassa da qualche parte al riparo dagli sguardi degli amanti clandestini, dei pescatori di frodo, delle finestre dei serpentoni e del Cantagalli.
Domenica nel cantiere deserto. Ore interminabili di far niente, d’ammonire il ferro vecchio della draga che non si alzi stiracchiandosi su sottili e insospettate zampe di fenicottero per poi librarsi in volo e sparire.
Ma che ci faccio qua?
E’ che io ho visto la vanità sedersi al posto di guida e passarmi uno specchio, l’ho vista tentare di mettermi in tribuna coi pop corn. Io l’ho guardata dritto negli occhi la mia vanità e l’ho guardata fino a farla arrossire, fino a farla vergognare, a vergognarmi, fino a farle abbassare la testa, a farla sparire.
E questo è bene.
Solo che in questo deserto non sempre ho la forza, e qualche volta lo specchio mi tenta.
Ma è acqua passata, per fortuna, acqua che evapora all’istante.
Vanessa dice che mi cresceranno le ali, che è questo il senso.
Adesso c’è un cane che m’annusa distrattamente e una fanciulla che arrossisce. Il suo uomo dalla faccia da poeta ha i capelli lunghi pieni d’erba. Questo cantiere è un porto di mare e io non sono un bravo custode. Pazienza.
Me ne andrò, domani, un’altra volta, lasciando in giro i miei segni, le mie parole, le mie cose, sparse.
Conserva questo lago, custode che verrai.