Nuovo millennio
Visto da terra, con occhi di formica, Canton è una montagna soffice e angolosa, i piedi lunghi avvolti nelle scarpe di tela e la ripida scalata delle gambe magre e nude, lisce colonne verso il cielo, verso quella testa piccola e lontana, quasi impercettibile, una distanza incommensurabile, un viaggio impossibile, di quelli che si affrontano ogni giorno per una crosta di pane.
Ma raggiungerla, quella testa, sarebbe solo un capriccio, una partita persa contro le leggi ferree della probabilità.
E poi, non c’è pane nella testa di Canton, che ripone il volume sul tavolo basso e si alza spalancando la fucina dell’eloquio e della masticazione in uno sbadiglio teso, vibrato, che dura tutto il tragitto dalla poltrona alla piccola cucina dov’è pronto come sempre il suo latte caldo di metà mattina.
Federico lo guarda dal punto più alto della torre di Babele con occhio così potente e grande che puoi vedere i lampi rossi del suo sguardo attento, poi, distratto da una donna che passa giù di sotto si dissolve.
Visto da lontano, magari da qui, dal tetto della chiesa della musica nuova, Canton si muove, apparentemente a caso, col suo sistema di leve lunghe e la sua testa piccola, una figura incorniciata dal quadro d’alluminio della finestra, uno schizzo tra le tele di vetro della pinacoteca a strapiombo sul piazzale.
E’ l’idea di un gesto o di un pensiero in un luogo dentro un luogo, nella città di Matrioska, e con un impercettibile spostarsi nel luogo, già non si vede più, non si immagina più, e con un impercettibile spostarsi nel tempo già se ne confonde il ricordo.
Probabilmente adesso Canton scruta il cielo per guardare le libellule e i cristi in croce che fanno manina.
Quel giorno era bel tempo a Matrioska e Canton se ne andava lieve sotto il solicello tiepido e camminava per niente assorto e addirittura salutava qualcuno per strada, così come gli veniva.
Poi, quando fu fuori dal paese imboccò il sentiero che scende al fiume.
“Nella nebbia
sul fiume si pesca
rarefatto è l’incanto”
In quel luogo che in alcun modo avrebbe dovuto richiamargli alla memoria l’oriente, Canton aveva composto un haiku, perfetto come sempre i suoi, impersonale, immediato, reale.
Canton aveva visto la nebbia dentro il sole e, seduto con le gambe penzoloni sul piccolo pontile, lo raccontava all’acqua perché passasse parola. Questo lo faceva stare bene.
Sull’altra riva del fiume, ignaro testimone di tutto questo, bivaccava un uomo solitario in cammino da Monaco a Parigi lungo tragitti di selve, campi, strade, fiumi, passo dopo passo, avanti di un chilometro e indietro di cent’anni.
Si dissetava quest’uomo e si lavava e faceva asciugare fra i rami i suoi vestiti.
Federico riprendeva il suo viso in primo piano, leggeva la storia nei solchi del viso scolpito dell’uomo, e nei solchi il racconto era chiaro e chiari i perché.
Poi allargò il campo e l’uomo era nudo, come steso ad asciugare in mezzo alle altre cose sue stese ad asciugare.
Quando solo metà del suo volto era ancora inquadrato, l’uomo articolò un gemito in parola e già fuori campo la parola era poesia e l’acqua era cristallina.
Canton intanto s’era rialzato e se ne andava con i suoi pensieri.
Nello stesso momento, parecchio lontano da lì, la Santa Maria II entrava in porto col suo carico di pesci e di storie insospettate.
Il pescatore Hernan, avvertì come una strana inquietudine che lo fece diventare assorto e malinconico mentre, appoggiato alla paratia del peschereccio, guardava il cielo arancione tuffarsi nel mare. Credette di star pensando a Esterina, sua moglie, ma non la pensava affatto.
Quella sera Canton andò a letto presto. Sarebbe entrato nel nuovo millennio così, dormendo, per poi svegliarsi come se niente fosse, come sempre.