A memoria d’uomo

Parco del Ticino 1992

A memoria d’uomo non si ricorda una pioggia come quella che, nell’autunno di quell’anno, trasformò l’intera pianura in un immenso corso d’acqua. Al sicuro sul cavallo a dondolo, nella mia casa galleggiante, passai quel tempo immerso nella giostra del caleidoscopio dove, tra i pezzetti di vetro colorato, mi fu dato scorgere i motivi di questa storia, sorprendente e mirabile effetto di luce, esorcismo, apologo.

*

Guardavo terrorizzato ma irrimediabilmente attratto, incuriosito, la bizzarra figura che alla mia sinistra ripeteva già da due giorni una nenia incomprensibile e che si muoveva senza però mai spostarsi di troppo per quell’unico passaggio fra la lingua di terra che come uno scivolo si protende al mare e il resto dell’isola, tutta scogliere a strapiombo, incrinandone col calpestio il silenzio immobile su cui lasciava galleggiare la sua cantilena.
Il movimento era lento, ipnotico, quasi mai pareva fine a qualcosa, ma ogni tanto, dopo essere rimasto assolutamente immobile per un po’, aveva un istantaneo rimescolamento.
Sì, cambiava proprio forma, linee, angoli, pezzi. Era grande, grande parecchio.
Fin ora non avevo osato procedere oltre. Mi ero tenuto ben nascosto sotto il guscio di noce e solo se certo che non potesse vedermi avanzavo d’un passetto nella speranza di imboccare un sentiero nascosto o uno di quei buchi che dalla scogliera portano dritto al mare e così potermi dileguare.
Ma ancora due giorni dopo niente, e la stanchezza, la fame e sopratutto la sete stavano per avere la meglio sul timore di essere fatto a pezzi da quell’ignobile ammasso gemente, e poi, quel pesce che avevo pescato cominciava davvero a non poterne più.
Ciò che più mi straniva era l’enorme, unico piede di umana fattezza con il quale quella improbabile sintesi di organi e geometrie si muoveva qua e là, devo riconoscere, per niente impacciato, tra cespugli e rovi, in quel tratto dell’isola.
Il terzo giorno, il sole era già alto, balzò addirittura su un fico selvatico spogliandone le fronde in men che non si dica. Si teneva poi col solo alluce alla pianta gustandone penzoloni il prelibato ingegno.
E adesso stava lì, ritto su quel piede e borbottava come un pentolone.
Io, stremato, mi risolsi ad uscire allo scoperto.
Cominciai a sollevare lentamente il guscio che mi aveva dato asilo, ma poi pensai che se mi avesse visto esitante e circospetto avrebbe potuto supporre intenzioni ostili nei suoi confronti e schiacciarmi, annientarmi subito in una istintiva reazione di difesa o sconcerto o che so io.
Dunque mi impegnai in un soliloquio ad alta voce e con gesto risoluto gettai per aria il guscio con grande schianto di legname e crepitio di foglie tutt’attorno, e mi avviai con passo deciso (a dire il vero le mie gambe tremavano a tal punto che durai non poca fatica a coordinarmi nel passo) e giammai tralasciai di fischiettare quando languiva la mia appassionata quanto fittizia arringa.
Contrariamente a quanto immaginassi, però, la cosa non mostrò alcuno stupore nel vedere muovere, parlare e fischiettare siffatto gheriglio, cioè me medesimo, o forse non mi vide, non mi sentì neanche.
Per un attimo pensai di approfittarne per correre via, ma non fidandomi di tanta indifferenza decisi di puntare dritto su di lui. Senza punto tergiversare e malgrado il tremolio delle gambe mi avviai. Ma quel riassunto di ipotesi biologiche continuava imperterrito nel suo mugugno senza accorgersi di me.
Tosto che fui ai suoi piedi, cercando di tenere lontana l’idea di quanto facilmente avrebbe potuto con un solo gesto ridurmi a cosa troppo orribile ad immaginarsi, mi schiarii la gola e urlai la prima cosa che mi venne in mente, almeno così credo perché nel piano che avevo studiato in alcun modo avevo pensato di gridare “UUH, AAH, OOOHI”.
Ma quello niente, e allora io “CHE VORRESTI DIMOSTRARE CON QUESTA TUA STRANEZZA, RAZZA DI COSO CHE NON SO, MI SEMBRI UNA GUERNICA CHE CAMMINA, IO, IO…” e di colpo m’arrestai, come se l’orologio del coraggio avesse esaurito la sua carica. Passavano i secondi e non accadeva nulla, io immobile e piccino, stretto nelle spalle, lui immobile e titanico, con un occhio gigantesco, fisso e un po’ bovino, un po’ beota, continuava a emettere quel suono, quel sussurro che pur così vicino adesso io per terrorizzato che ero non provai nemmeno a decifrare.
Stavo per riavermi quando d’improvviso, senza che potessi minimamente prepararmi a ciò, il mostro ebbe un’improvvisa contrazione, una smorfia, un orribile digrigno, e con terribile fragore smise di cantilenare e mi fissò con uno sguardo che a raccontare, ora… La sua espressione e sopratutto quell’esplosione di silenzio mi fecero barcollare, la mia vista s’abbuiò e la mente mia fu tutta un correre di lepri, un fuggi fuggi di canguri, e in ogni dove cani fermi in punta, e la mia testa tutta fughe, balzi e spari e svenni.
Svenuto com’ero presi a sognare, nel sogno guardavo un essere che non riuscivo a… cioè ricordavo, sognavo ricordando, elaborando, e nella calma assoluta della vita vegetativa, nel mio lucido ripercorrere onirico i fatti, ritornai al volto taurino dell’informe accozzaglia di umani brani frammisti a pezzi non umani che mi fissava e compresi che quel volto diceva, esprimeva, comunicava una sola ed apparentemente innocua domanda “Ma tu chi sei?”.
Se da una parte ciò poteva rassicurarmi in merito alla mia incolumità personale, quella imprevista risoluzione produsse nella mia anima assopita una sorta di uragano, come se l’area depressionaria del mio io si stesse scontrando con l’anticiclone delle Azzorre.
Quelle parole che mai quel mostro di sintesi e schiettezza aveva pronunciato adesso turbinavano in me, io le vedevo sdoppiarsi “Chi sei, tu chi sei?” e circondarmi. Mi giravo da una parte all’altra e in ogni dove “Tu chi sei?” e in quel vortice io precipitavo e così centrifugando ogni cosa io perdevo, mi cadeva tutto giù, anche il nome mio m’abbandonò, e tutti i numeri che avevo, tutti i numeri che ero… riuscii a scorgere un quattro che si stava inabissando tra i vapori delle nubi e sentivo sempre quella voce che chiedeva senza posa “Tu chi sei?”.
Ridotto ormai a trottola di un qualche cinico demonio, vidi con sgomento perdersi nel vortice mia moglie di cui avevo già dimenticato il nome.

Mi svegliai di soprassalto colpito da una scheggia di granata. Ero steso su una sdraio tra rigogliose e odorose piante di limone interrate in grossi vasi variopinti, con due foglie di banano che mi coprivano la vista parzialmente.
Non senza sbigottimento dovetti convenire di trovarmi in un giardino pensile.
Distinguevo senza dubbio il rumore del traffico giù in strada, segno incontestabile del mio stato di veglia, giacché mai in sogno potevo ricordare di aver mai sognato un’automobile, e tanto meno un’automobile nel traffico che strombazza a più non posso.
Sognavo sogni diversi io, gabbiani in volo, affascinanti castellane, gogne medievali da fuggire con indicibili astuzie e impareggiabile perizia equestre.
No, non stavo certo dormendo. Attorno a me un nugolo di mocciosi che giocavano alla guerra. Riconobbi la granata che mi aveva salvato dal precipizio proiettandomi in quell’inferno.
Voci su voci, l’uno superava l’altro in una violenta quanto vana pretesa d’attenzione e di ragioni, nei comandi degli assalti e delle esecuzioni: FUOCO
AVANTI
ELVIRA, CARA…
SÌ TESORO
MORTO, MORTO
TU SEI MORTO
TA TA TA
TATA TATA TATA TA
E in quel frastuono un tale mi guardava come fossi stato sempre lì.
Nel suo sguardo non c’era stupore, nessuna sorpresa, mi parlava, sì, guardava me e mi parlava.
Io non riuscivo a intenderlo e lui parlava e aspettava come attendesse una risposta. Io, allibito, e lui, sporgendosi dalla sdraio “Nonno, ti senti bene?”.
Quell’uomo mi chiamava nonno e un battaglione di piccoli dementi mi usava da trincea in quel tuttofiorito di cemento.
Ammutolito, col fiato sospeso dall’angoscia, sgomento, mi guardavo attorno con gli occhi spalancati. Avevo il magone come quando ero bambino e quelli che continuavano a chiamarmi “Nonno”. Sentivo di essere di là del pianto, guardai disperatamente attorno un’altra volta, l’occhio cadde sulla grondaia e volli riassumermi in una lacrima e scivolarvi dentro e sparire, ma aprii la bocca e parlai: “Pipì” dissi, ma non fece a tempo a voltarsi un’ignobile figura di donna dagli occhi rapaci che di nuovo mi trovai nel precipizio vorticoso tra le spume e i vapori attorcigliati e questa volta seppi godere di tanta giostra, giovane della mancanza di gravità e ubriaco d’ossigeno e di fuga.
A poco a poco tra le nubi cominciò a stagliarsi il contorno di quell’isola dove già, naufrago, ero approdato e dove a lungo m’ero rifugiato in un delizioso e tiepido e solitario oblio, fino al giorno che, tornando dalla pesca ebbi quell’incontro spaventoso col gigante… o forse fu soltanto una visione, un’allucinazione.
In un attimo fui là.

Calpestare quella terra m’era certo familiare, ma le voci in lontananza che sentivo adesso, quelle no.
Di quel luogo ricordavo una gran quiete, neanche il mare aveva voce e ricordo che, sdraiato sotto il sole sulla spiaggia, mi piaceva lasciarmi carezzare dalle onde pigre e silenziose come d’un mare sotto il mare.
Ma non ero preoccupato, dico, delle voci in lontananza, al contrario, sollevato per il prossimo sicuro incontrarmi con qualcuno e chissà poi, quelle voci… si trattasse di fanciulle cinguettanti?
Eccitato da quell’idea presi a battere il sentiero fischiettando delle vecchie mie canzoni di battaglia.
Mi giravo di qua e di là ad ammirare tutt’attorno respirando a fondo l’aria aspra e profumata, e scalciando sassi me ne andavo lieve e ogni tanto alzavo il sopracciglio e facevo l’occhio torvo nel caso colombella di soppiatto tra i cespugli m’ammirasse.
Ma ad un tratto, d’improvviso, mi trovai dentro un frastuono:
“QUESTA È L’ISOLA DEI NAUFRAGHI DELL’IO DOVE APPRODANO STREMATI DA OGNI LUOGO I CONFUSI D’OGNI ETÀ” udii chiaro, e tutt’intorno ” Uuh” e “Uua” e ancora “Iih” e “Iiihaa”. Sebbene quel clamore repentino, quella ridda d’urla immonde e di lamenti sulle prime m’avessero terrorizzato, finii con lo stimare tale evento suggestivo slancio dell’immaginazione, non potendo scorgere attorno a me null’altro che i montanti e le radure di quell’isola di sogno. Così ripresi a camminare e cominciavo a scuotere un po’ la testa e a fare gesti con le mani cercando nessi e incastri in quella rete fitta e complicata di strani accadimenti e procedevo in una nuvola di polvere rossastra quando, da un leggero diradarsi d’essa, un tale, ignoto alla mia vista precedente, mi si parò d’innanzi.
“COS’HAI CHE T’ARROVELLI” urla “TU CHE APPESTI L’ARIA DI TORMENTI?”
Mi giro e mi rigiro e solo me e me e me.
Parlerà con me?
Ma allora quelle urla, quegli strazi, quei terribili singhiozzi, vorrebbe dire lei, signore, ch’ero io?
Ma io, io, non credevo, non pensavo, non sapevo, tentavo di giustificarmi con quei severi occhi di gufo che mi interrogavano.
Caddi in ginocchio e il terreno “Ahi, mi fai male”. “Sassi che parlano?” mi chiesi ad alta voce mentre guardavo incredulo ai miei piedi. “MA NON IMPARI MAI?” eruttò quel tale mezzo gufo e in un attimo mi balzò alla gola e mi stringeva e mi insultava.
Ingaggiammo una lotta che per la verità non durò a lungo, e quando fui per terra che già rantolavo “Muoio”, mi carezzò la testa e ingentilì l’eloquio che nel timbro e nel tono manteneva comunque qualcosa della cornacchia, e mi pregò di far tesoro una buona volta, io non capii di che ma, tutto gonfio per le botte non osai avanzare dubbi, dissi sì e ringraziai.
Dopo una mezz’ora riuscii a tirarmi su, ancora scosso. Ma tant’è, quel gufaccio non c’era più, così ripresi a vagare per l’isola.
Già da un po’ il senso di levità che aveva accompagnato il mio ritorno in quel luogo mi aveva abbandonato a causa di quella sorta di uccellaccio dal manesco oracolare.
Ora cresceva in me l’inquietudine, lo sconforto, il terribile sospetto della solitudine e forse quel sole stava per farmi impazzire perché presi a correre, a correre senza senso di qua e di là.
Presto il panico s’impadronì di me.
Ero accecato dalla paura, forse dall’insolazione, sicuramente dalla sete. Correvo una corsa folle e disperata, cadevo e mi rialzavo e correvo ancor di più e stramazzavo al suolo e un’allucinazione si impadronì di me e fui una lucida pallina che che rotolava dentro un flipper e accendevo luci e musiche e risate e una cascata inarrestabile di punti e cadevo a precipizio in appiombo verso il baratro, ma nel momento estremo un colpo terrificante mi spingeva come un razzo a scalare una montagna e poi ancora giù come un siluro e su ad incunearmi per un passaggio stretto tra due rocce che era tutto verde e rigoglioso per numerose che erano le sorgenti d’acqua che giocavano a tracciare rivoli e argentini zampillii.
Così mi dissetai e caddi in un sonno profondo.

Sveglia, sveglia, mi dicevano ridendo tutti quei bambini con gli ombrelli colorati e mi scuotevano, mi tiravano, mi pizzicavano.
In tre sollevarono un’estremità della panchina così che scivolai come un salame dentro la pozzanghera.
Goccia lieve, gocciolina, grandemare, immensa folla di piccoli bambini. Anche il mondo delle cose minute sembra coalizzarsi in enormità per sovrastarmi.
Mille sussurri si prendono per mano e mi urlano addosso, le mille automobili si organizzano in una bestia tentacolare che preme, stringe, stritola, è una piovra di cellule anarchiche.
La mia compagna perde la sua prerogativa di colla di pesce e si sfarina con occhi di triglia per poco meno di due metri di operatore tv.
Davanti al banco del bar alzo le mani al cielo e grido “Caffè per me”, ma nessuno se ne accorge, la folla mi inghiotte, mi trascina fuori che ancora grido.
Che altro fare?
Barcollare.
Sono in città e penso alla campagna
In campagna penso al mare
Al mare penso alla montagna
In montagna guardo il cielo e dico “Voglio stare sulle nuvole”
Alzo lo sguardo e sono alla stazione.
Un bestione scende da un taxi, mi calpesta.
Voglio essere libero e sono in prigione
Voglio essere alto e sono basso
Guardo la barca e sono povero
Guardo il povero e sono ricco
Davanti alla ricchezza dello spirito sono un verme
Al cospetto di quel verme del mio direttore sono un raffinato esteta, la vita è un’altalena e io soffro il mal di mare.
Quando mi voglio fermare sono su una scala mobile, voglio correre e mi duole il ginocchio, vorrei sollevare la mia sposa ma pesa svariati quintali, ho bisogno d’aiuto ma sono in una folla di palloncini, inseguo una donna per la strada, la raggiungo, lei si volta. E’ Babbo Natale.
Non lo sopporto, non lo sopporto e faccio del male a più non posso. Ma di questo se ne accorgono tutti, subito, e non mi lasciano più andare.

Il gendarme mi sovrasta di due spanne buone, non mi spinge, non mi parla. Nemmeno un insulto. Ha una bella faccia d’uomo, una faccia da comparsa di teatro dell’opera.
Apre la porta della cella, potrei dire “Prima lei”, ma io trovo le parole solo quando tutto è finito e poi il sarcasmo amaro e beffardo è un esorcismo da cabaret e già è il clangore della porta che si chiude alle mie spalle.
Il recluso gigantesco mi si avvicina subito, “Che cosa hai fatto?”.
Cos’è un prete?, mi domando, e rispondo “Ho ucciso un tale che mi domandava cosa avessi fatto”.
“E cosa avevi fatto?”
Maledetti uomini ottusi, penso e rispondo a denti stretti “Avevo ucciso un tale che mi domandava cosa avessi fatto”.
Chiudo gli occhi e resto fermo. Questa montagna adesso mi massacrerà, mi farà a pezzi, penso.
E’ una sensazione di stupore che mi provoca, generalmente, l’essere fatto a pezzi, ma quell’uomo raddoppia il mio sbigottimento girando su se stesso in una piroetta e lasciandosi cadere pesantemente sulla branda che vibra come un’arpa vecchia.
L’uomo sa tacere, non ha paura dei pensieri, non dice sciocchezze, tace, tace e pensa e fa vibrare la sua arpa.
Quanto sono piccolo.
La decisione di partire per il paese dei pigmei matura in un istante. Ho soltanto un problema: la prigione.
Adesso l’unica è resistere, dormire, sognare.

Com’è che appare puntualmente, all’improvviso, questo incubo al contrario, dentro il buio degli occhi chiusi, dentro il sonno pieno di sconforto, questo luogo in mezzo al mare che mi fa desiderare di non far mai più ritorno?
Fu tornando dalla pesca, anche stavolta, che incontrai un abitante di quell’isola che io ancora mi ostinavo, non so poi per qual ragione a stimare inabitata.
In secondo piano rispetto a un olivo secolare, in lacrime, colui che tempo dopo seppi essere il timpanista dell’orchestra filarmonica di Briz, batteva forsennatamente i tamponi sui tamburi, ma non si percepiva altro che la vertigine del silenzio assoluto.
Non c’è dubbio, la presenza di qualcuno, anche solo il pensiero di una presenza mi metteva agitazione, le domande m’affollavano la mente e rischiavo di svegliarmi a ogni momento, o forse no, d’addormentarmi, o cosa?
Ahimè, cominciavo a perdere il filo di tutti quei sogni e dei risvegli, e per quanto mi sforzassi di accettare l’idea di essere là dove ero prima di svegliarmi in quei deliri che pur mi parevano realtà, sentivo stringersi il cuore nel ritrovarmi sull’isola con quel musicista e con quelle domande che nemmeno decifravo, che opprimevano il mio cuore.
La prigione, l’isola, il giardino, dov’ero prima e dove adesso? Cos’era prima e cosa dopo? Cos’era vero e cosa sogno?
Dopo due giorni di lacrime, seduto su uno scoglio a precipizio, volli rincuorarmi.
Capivo bene di dover reagire alle difficoltà, alla stranezza degli eventi, a quel senso di impotenza che genera a volte il non capire e sempre il mare a guardarlo troppo, onda dopo onda.
Così volli capire la natura di quel luogo, mi volli concentrare sulle leggi che ne governavano la vita, e vidi farsi giorno e diventare notte, secondo il moto regolare di un familiare sole che pareva assecondare un’orbita consueta.
Tutto ciò mi consolava e nondimeno questo sole non mi trapassava ma generava un’ombra che faceva la sua danza delle ore.
Cominciai ad annotare tutto e a costruirmi righe e squadre e un sestante e una bilancia ed ebbi pesi miei e mie misure, e appuntavo ogni cosa incidendo gli alberi con i miei segni.
Ma dopo soli e lune di quello studio assorto, di quel misurar maree e soppesare venti che impegnava ogni mia risorsa, sentii con sconforto l’inutilità di quello scorticare eucalipti.
Studiare le angolazioni del lampo e la profondità del tuono non mi aiutavano a penetrare il mistero della mia anima atterrita sotto il temporale.
Mossi così qualche passo fino all’acqua della pozza dove, specchiandomi, potei scorgere il mio volto stanco e desolato.
Osservai quel viso gravato di tanta solitudine finché le lacrime di naufrago ne incresparono il riflesso e sparii a me stesso.
Quanto avrei voluto incontrarmi con qualcuno, scambiare una parola, uno sguardo, aiutare ed essere aiutato.
Ma ero solo, terribilmente solo e sprofondato nello sconforto.

Fu a questo punto che avvenne una cosa che so che dire non mi procurerà che scherno, ma la gratitudine è tale che il ludibrio è pena assai modesta in confronto all’entità del servigio ch’ella mi rese.
Era giorno da due o tre ore e la mia ombra faceva il suo mestiere ricalcando la mia effigie a ponente quando, con stupore che non saprò mai dire, quella, l’ombra mia, proprio lei, si stacca dai miei piedi e comincia ad avviarsi a grandi passi su per la collina.
Sconcertato, sorpreso, restai inchiodato e non mi seppi muovere, ma mi riscossi e la chiamai a gran voce intimandole di tornare indietro, stupito da come il suono si propagasse teso e lesto su quell’isola silente.
Ma la mia ombra niente, non si fermava affatto e presi ad inseguirla finché fui in cima alla collina, nel punto dove piega verso l’altro versante della costa.
E quale gioia nel rivedere, in un anfratto tra gli scogli, in lontananza, quel coso, quel gigante che più non avevo voluto considerare fino a dimenticarne l’esistenza. Aveva occhi, ricordai. Mi guardò pure, una volta, dissi tra me e il cuore prese a battere nel petto tanto forte che perdeva il ritmo e scordandomi d’ogni paura corsi a capofitto verso quell’idea d’occhi.
La distanza non era poi breve e presto mi stancai e procedetti camminando.
Quando il cuore si calmò un poco i pensieri ripresero un contegno, e mano a mano che m’avvicinavo il dubbio e il timore s’insinuarono in quella mia volontà d’incontro.
Ma andai avanti finché gli fui al cospetto.
Vincendo la paura di fissare quello sguardo laddove senza dubbio, o forse almeno così mi parve, quel coso gigantesco avere gli occhi, lacrime vidi scendere a dirotto.
“Lacrime” dissi senza volere, dando fiato al corso dei pensieri e la testa lui piegò un poco come quando fischi, il cane.
“Amico” disse e “Bene” e altre cose che non riuscivo a decifrare.
Non credo che parlasse la mia lingua ma un po’ capivo ed esultavo, e l’ombra mia dietro di me.
Tutti i giorni c’incontrammo io, il gigante e il timpanista, che restava sullo sfondo senza proferire suono. Ma forse il giorno che sentii da dentro il bosco un forte tuono non era il cielo ma il tamburo, sì, il tamburo di quell’uomo che aveva suonato, non so questo come fu ma né io e né il gigante, poi, lo rivedemmo più.
Un giorno, cosa mai accaduta prima, mi travai sotto un cielo denso di nubi nere e spesse, il mio cuore s’abbuiava e ogni sguardo era fatica e la storia del gigante, adesso, la trovavo stramba e mi guardavo attorno e in ogni dove ombre e quella mia sicuramente a banchettar con esse in quel festino, in quella orgia di grigiore e io, pellegrino alla ricerca di me stesso mi angosciavo e dubitavo di ogni cosa e volevo a tutti i costi andare via da lì, come era andato il timpanista, già, quel musicista, cos’era stato e dove mai l’avea portato?
Così, assediato da quella stregua di domande e sì avvilito, lo confesso, mi avviai davvero tristo a quella mia dimora solitaria.
Mentre guadagnavo il sentiero tra il fitto dell’improbabile boschetto, lungo il tragitto per la capanna mia, non so perché ma mi girai e con spavanto trasalii.
L’ingrata ombra era tornata, era ai miei piedi, proprio lì, e prima che potessi proferire verbo, cominciò: “Perché ti stupisci, ancora ti atterrisci e ti rabbui, perché dubiti così?” diceva “Non ci sono forse io, ora, a parlarti qui, a farti ridere di te?”
Ridere di me? E io a quella sagoma impertinente: “Basta, basta, non mi dire niente” e nel vederla diventare serpentina tra le canne: “Taci sciocca, oh sciocco me, chi potrebbe ridere tra sé a parlare con un’ombra, a guardarla essere così, ridotta come biscia che zigzaga tra il granturco?”
A quella mia domanda m’arrestai, m’illuminai.
La guardai con la coda dell’occhio farsi piccola e sottile, e che commozione nel vederla impigliarsi tra le foglie e piegarsi e allungarsi all’imporovviso per uno spazio tra le canne, a lambire quasi la scogliera dove piega verso il centro della terra, e poi raccogliersi subito ai miei piedi e cominciare a ondeggiare, avvicinarsi quasi a farsi calpestare, e poi aggirarmi repentina e ritrovarmela alle spalle…
Così più non rifiutai di parlare all’ombra mia quando domandava appello.
Con lei parlavo e la guardavo, e presi a gurdare me tramite lei e le sue forme, e a ridere di me e delle mie forme e quando io e lei, con il gigante cominciammo a far lo stesso, scoprendo quante ombre generava, in quell’esilio il tempo cominciò a esser lesto.
Quante cose sapeva quel gigante mio, e quelle ombre che facevan comunella, e ogni tramonto, com’era nostro.
Me medesmo e il mostro, appollaiati sullo scoglio a raccontarci storie, a piangere, a rider tosto, e quelle ombre a voltreggiar sul mare.
Solo al mattino, col sole alto, volevo andare a riposare e fatto cenno all’ombra mia e salutato il mio compare, mi avviavo per quel bosco al termine del quale un rifugio m’ero fatto, di canne, foglie secche, d’alberi strani.
Là meditavo e m’assopivo poi sognavo d’essere in un sogno, in quel sogno m’assopivo e volavo, volavo, volavo… volavo sopra la scogliera, sopra il mare, sopra la città, e poi volavo dentro la prigione dove un uomo se ne stava rannicchiato sulla branda con la faccia rivolta verso il muro.
Dall’altra parte della cella, un tale grande come una montagna leggeva una storia che cominciava così: “L’uomo vecchio, col viso ancora bagnato di pianto spense la luce, si girò dall’altra parte e volle sognare di essere un uccello…”

 

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